Cercando il codice

di Cristiano Gabrielli

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“Tsi doni, tsi doni, di tudomi unwa: da duki, da duki to da me, pe nuga hingá ma.”

“Piccolo fiore, piccolo fiore, io fiorisco qui: che mi tagli chi vuole, io non me ne vado»                                      

Frammento di canzone Otomí

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“Tu non sé morta, ma sé ismarrita

Anima nostra, che sí ti lamenti”                         

 Dante Alighieri

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Mi chiamavo l’Uomo Illustrato mentre l’inchiostro andava a gocce lente, dalla mia pelle oramai traslucida e bianca, alla terra.

Non ci sono buganvillee in questa parte del territorio, ma quelle che ci sono ostentano petali di bocche cucite.

Meravigliosi parassiti e tarli della mente si incancreniscono ormai ovunque.

Un autunno chirurgico di emancipanti bastoni cerebrali si accartoccia dietro di me, mentre ritrovo il cammino arrivandomi alle spalle e leggendomi di sorpresa, con sorpresa.

Mi ero perso perché mi dimentico spesso che la mappa, ora, sono solo io.

Ma adesso cammino stanco e ritorno, nudo ma pieno e senza vergogna, sicuro e felice, anche quando i piccoli fiori rosa polvere e granato, che sento esplodere nel tessuto dell’iride, mi commuovono fino alla vertigine.

Seguo la vibrazione minima dell’acqua che si nasconde in gomitoli nei segreti percorsi profondi, sapienti e ancestrali, sotto il terreno e sotto i miei piedi.

Florecita, florecita.

Le palme delle mani, aperte come si fa passando in un campo di grano che cresce, raccolgono piacevolmente spine dalle piante zig zag: baci di acrobati danzanti che lasciano un filamento continuo e coerente della traccia di sé, nella forma carnosa in cui crescono.

In alto, vedo le mani di mio padre e mia madre, con stelle a bruciarne la pelle del dorso.

Stelle-giaguaro, nel cielo.

Sto tornando a casa lento e con calma, penso.

Troppo lento.

La linfa dei piccoli pezzi di succulenta, dolce, acre e bavosa, in bocca dà forza e nausea, colori acuminati e gioiosi, morenti in do minore.

La polvere si gonfia nel territorio del sogno, nel semi-deserto, intorno ai piedi, automatici e sicuri.

I nopales intorno urlano, ritmici, con un silenzio sussurrante.

Florecita, florecita.

Il taglio della croce di pietra, nel profondo arco povero e semplice dell’oratorio, fuori della casa di Doña Maria, è bello, potente, marziale, sacro e tolteca.

La spirale mozzata dell’acqua rimanda alla punta di lancia, alle piccole croci di legno annerite degli antenati, alle foglie oramai croccanti di sole, gialle e grasse di polvere, intrecciate e piegate quasi un anno prima.

Doña Maria non dice mai niente: appoggiata alla porta sente il freddo della notte e aspetta, da sempre, ogni pellegrino che arriverà.

Guarda la cima.

L’offrenda mi entra in bocca dalle mani, assieme alle spine, all’inchiostro e alla cera delle candele.

L’acqua è un morso benevolo sulla lingua e sa di pelle di serpente, fiori marci, tradizione, resistenza, azzurro, metallo e speranza.

Grazie, Padre-Madre, avevo fame.

Lasciane alla croce, a chi passerà dopo di te, ai morti e alla guerra: non sei il tuo Dio.

Sei anche, Dio.

Madre sorride da una nocca dell’indice zig zag, la stella tremula dolce di mercurio, quando anche io sorrido.

Padre è contento e le stelle-giaguaro bruciano di orgoglio quando le guardo e vedo, sulle vene in rilievo, dove sarà l’azimut esatto delle mie.

Devo andare avanti, adesso.

Guardo i disegni sul mio braccio e so dove sono.

Questo è un passaggio, anche se quelli dall’altra parte, nell’universo-scatola, lo chiamano solo un buon limite, un osso.

Mi giro un attimo e la notte, polposa e sfatta, si lascia finalmente attraversare volentieri dagli organi spinosi, che cercano verità liberamente, con voluttà, col dito indice nella ferita aperta, pulita e fremente, appena sopra il Nodus Gordi.

Michele, che mai chiese di essere un semplice Angelo, sorride stanco sotto l’enorme tela terminata: seduto per terra con le mani lorde e i talloni dei piedi luridi di nero, gioca a nettarsi le unghie con lo stesso coltello con cui, appena prima, ha ferito l’oscurità e se stesso.

Lo rimette, gentile, in bocca a Dio, tenendo la lama per la punta.

Mi fa un gesto sfacciato e complice, solo con la punta di barba disordinata del mento e sgrana gli occhi da baro pazzo, gonfi di vino denso e lacrime e di piccole vene, rosse come il vestito di una madonna soave, puttana, amata e suicida.

Quelli della Luna in alto, brulicano e disapprovano, centinaio per centinaio, freddi e piatti, ora si aprono incantati un istante e forse comprendono, unici, marrone scuro e caldi.

Mangiami ancora come io ti mangio, adesso e sempre, se vuoi il dialogo dei massimi sistemi: le dico con violenta dolcezza arancione.

Poi ricomincio a camminare: Florecita Florecita.

Guardo i piedi muoversi precisamente sulle impronte, uguali ed esatte a quelle che lascerei io: sono già su sabbia e lingue di onde.

Dovrebbe essere il figlio, a poter sentirsi sicuro, nel seguire le orme del padre.

Che sarà di noi, Florecita che abbiamo scelto il coraggio di scoprire figli nei padri e padri nei figli?

L’ultima impronta, intorno al bordo, si bagna di sale e dolore in un alone liquido, sotto la mia pressione.

Zarathustra sulla sua barca di legno è lontano e minuscolo, all’orizzonte, attorniato da uno stormo disordinato e chiassoso di uccelli messaggeri: va verso Venere.

La sua risata, ancora ubriaca di pulque, arriva smorzata e carica di eco e di risacca.

Il mare è già nero, saturo d’inchiostro, le scie dei pesci-occhio attraversano la spuma.

Il rumore che mi sveglia sembra un morso dato su una mela croccante, gialla e pallida come un inverno affilato di freddo, che diventa un giorno di vacanza rubato e perfetto, a novembre, sul lungomare di Ostia, in Italia.

Ma sono a Città del Messico, invece.

La sigaretta che accendo è amara come il fiele, ma necessaria.

Tornare a casa è tornare a se stessi.

Meglio troppo lento che troppo tardi.

Lo penso mentre il prurito insistente mi fa guardare le mani.

Spine piccole, sotto la pelle spessa delle dita, e macchie d’inchiostro.

Florecita, florecita.

Mi chiamo l’Uomo Illustrato.

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